Con Nun te ne fa’, Gnut conferma la sua capacità di intrecciare radici napoletane, folk e blues in un linguaggio personale e diretto. Un disco che nasce dall’istinto, registrato in presa diretta per catturare l’essenza di ogni brano.
In questa intervista, l’artista racconta la genesi di Luntano ‘a te, la sua idea di musica come rifugio ma non unica risposta, e il percorso che l’ha portato fino a qui, tra ricerca sonora e necessità di restare sempre fedele a sé stesso.
“Luntano ‘a te” racconta il sollievo dopo la fine di un amore tossico, ma anche l’amarezza che lascia dietro. Cosa volevi trasmettere al pubblico? E cosa resta dentro, anche dopo la liberazione?
«In realtà quando scrivo non penso mai a cosa arriverà a chi ascolterà il pezzo. Parto da stati d’animo o esperienze personali che elaboro attraverso la musica. Inizio a farmi domande in un secondo momento. In questo caso volevo trasmettere conforto ed empatia a chi purtroppo è stato vittima di un rapporto tossico e mi auguro che in alcuni casi trasmetta anche il coraggio per reagire a determinate situazioni.
Quello che resta dopo la liberazione è sicuramente un senso di leggerezza ma anche sconforto per aver sprecato tempo ed energie con la persona sbagliata. Mi auguro che resti anche un’esperienza da cui trarre un grande insegnamento. A volte siamo noi a mostrare il fianco a certi atteggiamenti e bisogna imparare e migliorarsi anche in questo».
Hai registrato il brano in presa diretta, come se volessi catturare un’emozione ancora viva, non filtrata. Qual è stato il momento più difficile da attraversare durante la registrazione? C’è stato un istante in cui hai sentito il peso della storia che stavi raccontando?
«Abbiamo registrato tutto in due ore. Canzone e video in presa diretta. La concentrazione era altissima. Sento sempre il peso delle parole che canto ed è sempre molto emozionante. In questo caso sono entrato nella modalità “concerto” quando non hai scorciatoie e sei costretto a dare subito il cento per cento. È stata un’esperienza molto intensa ma devo dire che non ci sono stati momenti particolarmente difficili».
In Nun te ne fa’ canti “so’ ssule fatte mie, so’ ccose ca succedono a stu munno”. C’è mai stato un momento in cui hai sentito che la musica non bastava più per darti conforto?
«La musica mi accompagna da quando ero un ragazzino. Mi aiutato ed è stata un rifugio per tanti momenti difficili. Ancora oggi è una disciplina che mi da serenità e combatte con me i miei demoni. Ma devo dire che da sola non è mai bastata a riempire i vuoti che ho dentro. Per quello ci sono gli affetti, la famiglia, gli amici».
Nel tuo nuovo album Nun te ne fa’ convivono tradizione napoletana, folk inglese e blues. Come sei riuscito a trovare un equilibrio tra queste influenze senza perdere la tua identità artistica?
«La mia identità artistica è frutto dei miei limiti. Le influenze musicale sono strade che scelgo di seguire a modo mio. Il risultato è un compromesso tra quello che vorrei fare e il modo in cui riesco a farlo. Se avessi avuto più talento probabilmente la mia musica sarebbe stata di qualità superiore ma sarebbe stata meno originale».
Nei tuoi testi si avverte sempre una sorta di lotta tra il lasciarsi andare e il bisogno di trattenere qualcosa. Ma ci sono cose che è meglio dimenticare?
«Credo di no. Tutto quello che viviamo forgia il nostro carattere e quello che siamo nel mondo. Siamo la somma di tante cose ed è importante secondo me fare tesoro di tutte le esperienze».
Vent’anni di musica, un’identità che mescola Napoli con il folk, il blues e un’inquietudine poetica. Se potessi tornare indietro e parlare al Gnut degli inizi, cosa gli diresti? E lui, secondo te, ti riconoscerebbe oggi?
«Ero un giovane vecchio già a vent’anni. Gli direi che faceva bene a dedicarsi alla musica e alla ricerca costante di un proprio linguaggio musicale. Che faceva bene a non adattarsi e a cercare il proprio posto nel mondo. Credo che si riconoscerebbe e sarebbe contento del percorso fatto».