Il 19 febbraio 1953, a San Giorgio a Cremano, nasceva Massimo Troisi, figura gentile e schiva che ha saputo trasformare la fragilità in arte e la quotidianità in poesia. La sua voce, roca e familiare, sembrava sussurrare confidenze all’orecchio di chi lo ascoltava; il suo sguardo, timido e disarmante, custodiva l’ironia delicata di chi conosce le pieghe dell’animo umano.
Troisi non recitava, semplicemente era. Con naturalezza disarmante, portava in scena l’incertezza, l’amore impacciato, la paura di non essere capiti. Era un uomo in bilico tra la leggerezza della battuta e la profondità di un pensiero mai urlato, ma sempre vibrante. Napoli, la sua terra, gli scorreva dentro come un fiume calmo e testardo: era radice e orizzonte, melodia e malinconia.
Il tempo – quel nemico silenzioso che lui stesso sfidava con ironia – alla fine lo ha raggiunto troppo presto. Solo dodici ore dopo aver chiuso l’ultima scena de Il Postino, la vita lo ha salutato. Eppure, c’è da chiedersi se davvero se ne sia andato. Le sue parole restano sospese nell’aria, i suoi gesti sembrano ancora lì, pronti a riempire i silenzi di chi lo cerca.
Troisi giocava con la morte come si gioca con un’ombra: l’accarezzava, la sfidava, la derideva con dolcezza. Aveva già immaginato la sua assenza, ma ci ha lasciato un’eredità che sa di presenza continua. Basta accendere uno schermo, chiudere gli occhi, riascoltare quella voce: ed eccolo, ancora lì, a farci sorridere con la malinconia di chi non pretende di essere capito, ma finisce per esserlo profondamente.
E così, caro Massimo, non ci resta che tenerti stretto nel ricordo. C’è chi ti tramanda, chi ti scopre per la prima volta e chi, semplicemente, si lascia accompagnare da te. Perché, alla fine, ci sarà sempre un motivo per tornare alle tue parole, per (ri)viverti, per ricominciare da te.
Roberto Benigni aveva ragione: “Per lui non vale il detto che è del Papa. Morto un Troisi, non se ne fa un altro”.