Tra un set e l’altro, tra Roma e la sua San Giorgio, si concede davvero poche pause. Eppure il suo cuore malandato di 71 enne gli rende tutto più difficile. La fatica viene spazzata via quando nel suo appartamento spolvera foto di recenti successi. Non si contano gli Oscar, i Golden Globes e le Coppe Volpi, tanti i David di Donatello e i Nastri d’Argento. E richiesto in tutto il mondo e con fierezza ricorda con il suo accetto di essere figlio di Napoli.
Questa è un storia mai scritta, una favola. La dura realtà volle che Massimo Troisi ci lasciò esattamente 30 anni fa, il 4 giugno 1994, quando di anni ne aveva appena 41.
«Per lui non vale il detto che è del Papa, morto un Troisi non se ne fa un altro». Così il suo grande amico Roberto Benigni dedicandogli una poesia. Ha ragione il comico toscano, dopo Troisi il vuoto. Un talento irripetibile che restituì a Napoli la statura di una vera capitale mondiale. Più volte accostato ad Eduardo e Totò ma lui rispondeva così: «A me sembra anche irriverente fare questo paragone. Ma non lo dico per modestia, perché non si fa il paragone con Totò o con Eduardo, questa è gente che è Stata trenta-quaranta anni e quindi ci ha lasciato un patrimonio». Lui quel patrimonio poi l’ha lasciato.
La storia del “Pulcinella di San Giorgio a Cremano” ha dell’incredibile. Nato da famiglia umile in una casa piccola, morì da star internazionale. I suoi primi passi da attore proprio nella periferia di Napoli con quei “Saraceni” che formava con Lello Arena ed Enzo De Caro che vennero alla ribalta in tv con “La Smorfia”. Massimo bucò lo schermo con il suo fare timido e scanzonato, la sua parlantina quasi incomprensibile, tempi comici spaventosi e per volto una maschera teatrale. Di lì a poco anche il pubblico del grande schermo si innamorò di lui.
Dopo l’esordio pluripremiato – con 4 Nastri e 2 David – come regista e protagonista con “Ricomincio da tre” (1981), fu apprezzato dalla critica anche per “Scusate il ritardo ” (1983). Ma il trionfo di pubblico e di incasso, condiviso con Roberto Benigni, giunse con “Non ci resta che piangere” (1984). Dietro la macchina da presa continuò con “Le vie del Signore sono finite” (1987) e “Pensavo fosse amore… e invece era un calesse” (1991), poi fu Ettore Scola a chiamarlo come attore per calarsi nei panni di Pulcinella nel “Il viaggio di Capitan Fracassa” (1990) e consacrarlo alla mostra di Venezia con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione in “Che ora è?”
Poi arrivò il regista statunitense Michael Radford che lo volle protagonista del suo “Il Postino”. Massimo lottò contro la sua malattia portando a termine le riprese, quelle più impegnative in sella alla bici le fecero fare ad una controfigura. Dodici ore dopo l’ultimo ciak, il suo cuore si è spento a Ostia, aveva trovato rifugio in casa della sorella Annamaria dopo le fatiche di un set che non avrebbe dovuto affron tare. Quel film gli valse addirittura una nomination agli Oscar come “Miglior attore protagonista”.
Il destino non gli ha permesso di assistere al suo trionfo, ma allo stesso tempo lo ha reso una icona. Immortale.