C’è un’immagine che torna ogni anno, quando si parla di Giancarlo Siani: una Renault Méhari verde parcheggiata sotto casa, la sera del 23 settembre 1985. Non è solo il ricordo di un omicidio di camorra, ma la fotografia di un Paese che allora non seppe proteggere un ragazzo di ventisei anni che faceva semplicemente il suo mestiere. Giancarlo non aveva scorte, non aveva un contratto stabile.
Aveva un taccuino, una penna, e la testardaggine di chi pensa che raccontare le cose per come sono sia l’unico modo di restare liberi.
Non era un giornalista famoso, non andava in televisione. Scriveva articoli per Il Mattino da precario, pezzi di cronaca che spesso coincidevano con il rumore degli spari. Ma non si fermava davanti alla cronaca giudiziaria di giornata: voleva capire chi decideva, chi guadagnava, chi stringeva accordi. Perché la camorra non era folklore da bar o stereotipo da film, era potere vero. E lui, con la sua penna leggera e ostinata, lo stava raccontando.
L’articolo che gli costò la vita era uscito pochi mesi prima: ricostruiva le fratture interne ai clan, la rottura tra due famiglie, un cambio di equilibri che faceva tremare Napoli e dintorni. Solo precisione dei fatti. Ed è proprio quella chiarezza, così limpida da non lasciare scappatoie, che lo rese un bersaglio.
Chi lo conosceva racconta che Giancarlo aveva il passo calmo, e la voce bassa, e al tempo stesso una determinazione che non gli permetteva di girarsi dall’altra parte. Faceva domande, prendeva appunti, verificava. Cercava verità. Forse era proprio questa normalità a renderlo pericoloso: non l’eroe che sfida i clan a viso aperto, ma il cronista che insiste, che osserva, che scrive, giorno dopo giorno, fino a diventare insopportabile per chi aveva interesse a mantenere il silenzio.
Oggi, quarant’anni dopo, il suo nome continua a interrogarci. Non tanto per la retorica delle commemorazioni, ma perché ci ricorda che il giornalismo può ancora essere un argine. E che, se smettiamo di pretendere questo dai nostri cronisti, la democrazia diventa più fragile. Giancarlo non aveva protezioni né privilegi, ma aveva capito che il potere si nutre soprattutto del silenzio. Romperlo era il suo compito, e lo pagò con la vita.
Parlare di lui non significa soltanto ricordare un ragazzo ucciso dalla camorra. Significa chiedersi se oggi abbiamo il coraggio di fare quello che faceva lui: guardare in faccia le cose, raccontarle senza piegarle, non accettare che la paura e la convenienza decidano al posto nostro. È questa la sua eredità. Non una lapide, non una cerimonia, ma una domanda che non smette di bruciare: chi ha ancora voglia di raccontare fino in fondo?
