Leggere “Che succede a Baum?”, il primo romanzo di Woody Allen (sì, il primo davvero), pubblicato in Italia da La nave di Teseo, è un po’ come ritrovare una voce familiare che pensavi di conoscere, ma che suona diversa, più intima. In queste pagine Allen sembra voler restituire quella voce interiore che da sempre attraversa il suo cinema, ma qui arriva senza filtro, più nuda, più diretta.
Baum, lo scrittore in crisi che dà il titolo al libro, è un concentrato di nevrosi, insicurezze e sarcasmo: un uomo che analizza se stesso fino allo sfinimento, e dentro cui è impossibile non riconoscere il riflesso del suo autore.
Ciò che colpisce è il ritmo mentale. Il modo in cui Allen scrive è un flusso continuo, denso di pensieri che si rincorrono e si contraddicono. Ti ritrovi a sorridere di un paradosso, a spiazzarti per una battuta che disinnesca ogni pretesa di serietà, e poi (quasi senza accorgertene) a fermarti su una riflessione che cambia tono all’intero capitolo. È quel confine mobile tra commedia e dramma che da sempre definisce il suo cinema, solo che qui non ci sono attori a interpretarlo: c’è solo la sua voce.
A tratti ritornano le atmosfere di Manhattan, anche senza immagini: l’ironia che si intreccia alla malinconia, l’intelligenza che non riesce a difendersi dall’emozione. E forse è questo l’aspetto più sorprendente: Allen non si reinventa, non prova a essere un romanziere “nuovo”. Porta con sé il suo sguardo di sempre, e funziona.
Che questo sia il suo primo romanzo sembra quasi impossibile Leggendo, la domanda viene spontanea: perché solo adesso? Forse perché per Woody Allen il tempo non è mai stato un vincolo, ma una variabile del racconto. Che fosse dietro la macchina da presa o davanti a una pagina, il suo modo di osservare il mondo era già completo.
Che succede a Baum? non cercherà di piacere a tutti (per fortuna). Ma chi accetterà il suo passo, le sue ossessioni e la sua ironia malinconica, scoprirà un autore che non ha perso nulla della sua forza. L’ha semplicemente spostata altrove.
