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Se avete amato “Nuovo Cinema Paradiso” – che equivale ad averlo visto perché è un capolavoro assoluto – senz’altro vi sarete affezionati al piccolo protagonista: Totò Cascio.
Il film di Giuseppe Tornatore ebbe un successo incredibile, vincendo l’Oscar per il miglior film straniero quindici anni dopo un altro italiano, Fellini con “Amarcord”.
Al bimbo gli valse persino un BAFTA, il più giovane di sempre a ricevere il prestigioso premio. Poi Totò continuò a lavorare sia con Tornatore, nel cast di “Stanno tutti bene”, con il grande Marcello Mastroianni.
Successivamente con registi del calibro di Pupi Avati (in “Festival”) e Duccio Tessari (in “C’era un castello con 40 cani”), fino al 1999 anno del suo ultimo film: Il morso del serpente di Luigi Parisi.
Dopo di che, scompare.
Oggi, a 42 anni, Totò Cascio ha trovato la forza e la voglia di raccontare la sua esperienza in un libro che è insieme memoir cinematografico e racconto di formazione e di rinascita: “La gloria e la prova. Il mio nuovo cinema paradiso 2.0” (Baldini+Castoldi).
Ai giornalisti che lo incalzano non vuole dire la verità, preferendo far credere che il cinema si sia dimenticato di lui. E stata invece una grave malattia – la retinite pigmentosa con edema maculare, che gli ha procurato una perdita progressiva, irreversibile e quasi totale della vista – a farlo rinunciare a quella che era una carriera promettente e radiosa.
«Il mio piccolo Totò, stregato da una sala cinematografica, aveva smesso di essere bambino, ma senza perdere l’innocenza del suo modo di vedere le cose. Al contrario, il non poterle più vedere gli regalava il dono di guardare lontano», si legge nella prefazione proprio di Giuseppe Tornatore.
Così, rinato, lancia un segnale a chi è nella sua condizione: non nascondetevi, anzi imparate ad accettarvi. «Senza accettarsi, ci si porta dentro l’avversario più feroce. Me lo disse anche Andrea Bocelli: “Totò, non è un disonore”. Sono state parole illuminanti».