Non so in quanti conoscano Nan Golding. Io personalmente non mi ero mai imbattuto nella sua storia epica e emozionante. Ed ecco che arriva un’opera, “All the Beauty and the Bloodshed”, che la racconta attraverso lo sguardo della regista Laura Poitras (premio Oscar nel 2015 per il documentario “Citizenfour”).
La sua è stata una vita segnata da una sorella morta suicida, da genitori anaffettivi, e amici avuti e perduti. Il documentario parte da P.A.I.N., un gruppo da lei fondato per indurre i musei a rifiutare i fondi Sackler, togliere lo stigma alla dipendenza e promuovere strategie di riduzione del danno. Ispirato da Act Up, il gruppo ha orchestrato una serie di proteste atte a denunciare i Sackler e i crimini della Purdue Pharma, produttrice dell’ossicodone.
E ovviamente le sue opere d’arte come The Ballad of Sexual Dependency, The Other Side, Sisters, Saints and Sibyls e Memory Lost, dove ritrae gli amici rappresentandoli con bellezza e cruda tenerezza.
«”All the Beauty and the Bloodshed” parla di un processo organico, attorno a un’artista che ha usato la sua influenza artistica per raccontare i fallimenti della società, prima con Witnesses e ora con PAIN, prima per l’Aids e ora con l’overdose da oppioidi: questa convergenza è stato il primo pilastro. Di impatto assoluto per storytelling, rappresentazione e coraggio, Nan si è svelata in interviste assai intime a casa sua nei weekend: siamo andati in profondità, anche con dolore, è stato un percorso straordinario», ha raccontato la regista.
«Laura è una filmaker politica, ma io non avevo segreti di Stato da condividere, ma lavorare con lei è stata una terapia senza terapista: le ho rilevate cose che non avevo mai detto prima. Essere oggi qui a Venezia è un onore», così la Golding in conferenza stampa al Lido.
«Il mio più grande orgoglio è aver abbattuto una famiglia di miliardari, nel momento in cui in America i miliardari hanno un differente sistema giudiziario, ovvero totale impunità», ha annunciato l’artista con orgoglio.
Oggi si sente «una vecchia signora» e che «la cosa più importante per un artista è dire no”, osservando come ”da sempre lavoro sullo stigma, dalle forme di sessualità alle scelte di genere negli anni Settanta al rapporto tra uomini e donne, dall’Aids al disagio psichico, dall’autolesionismo alle droghe e alla crisi degli oppioidi. Le cose sbagliate vengono taciute, io spero che se ne parli».
Se ancora oggi nel mondo «ci sono dieci milioni di persone malati di Aids», Nan affonda il colpo: «Stigma e fobia uccidono le persone, la mai comunità è morta di Aids, ora non voglio ne muoia un’altra. Nulla va bene in America oggi, non ci si prende cura delle persone».
La preparazione a questo film inizia nel 2019. «Nan e io ci incontravamo a casa sua nei fine settimana e parlavamo. All’inizio sono stata attratta dalla storia terrificante di una famiglia miliardaria che ha consapevolmente creato un’epidemia e ha successivamente versato denaro ai musei, ottenendo in cambio detrazioni fiscali e la possibilità di dare il proprio nome a qualche galleria. Ma mentre parlavamo, ho capito che questa era solo una parte della storia che volevo raccontare, e che il nucleo del film è costituito dall’arte, dalla fotografia di Nan e dall’eredità dei suoi amici e della sorella Barbara. Un’eredità di persone in fuga dall’America».