Trovarsi al posto giusto al momento giusto è importante in tutti i mestieri, figuriamoci in quello dell’attore. Marco D’Amore, diventato uno degli attori più amati del panorama cinematografico e seriale italiano, ha raccontato ai microfoni di Sky di quando Matteo Garrone lo scartò per un ruolo nel film “Gomorra”, a causa della sua gentilezza.
E, ironia della sorte, pochi anni dopo D’Amore diventa protagonista assoluto di Gomorra – La Serie, tra le più seguite e amate al mondo, prima da attore e poi da regista.
Dal 29 febbraio al cinema con ‘Caracas’, il suo ultimo lavoro da attore-regista, con una storia tratta dal romanzo ‘Napoli ferroviaria’ di Ermanno Rea in cui interpreta “un ragazzo che si è educato intorno ai valori della destra italiana che poi a un certo punto della vita dice di sé di non potersi più chiamare occidentale e quindi si converte all’Islam”.
Un film che si scontra con temi molto complessi ma che non abbandona mai “il desiderio di questi esseri umani di trovare un luogo nel mondo che li accolga, di trovare un posto che sia famiglia, che sia casa. Questo è un sentimento che pervade tutto il film”.
Durante la lunga chiacchierata al programma Sky “Stories”, Marco D’Amore ha ripercorso la sua vita e la sua carriera.
“Casa mia – Racconta D’Amore – era una famiglia, era una casa, sempre molto ospitale, molto abitata. I miei genitori hanno avuto la bontà e, secondo me, anche la generosità di accogliere persone che avevano pochissimo a che fare col mondo da cui provenivano. Si ascoltava tanta musica, si parlava tanto di cinema, c’era una grande passione per il teatro e per la lettura”.
La passione per la recitazione l’ha aiutato da bambino a smussare alcuni lati del suo carattere: “Ero veramente terribile, ero molto irascibile, ero prepotente, ero disubbidiente. Ho trovato su quello strano rettangolo di legno alcune coordinate per intercettare la vita e per convogliare queste energie che fuori invece erano veramente ingestibili. In un luogo senza spazio e senza tempo come il palco mi sono orientato”.
Da quel momento ha sempre saputo cosa voleva fare da grande e, nel corso della sua gavetta, ci fu un “no” che oggi racconta col sorriso: “Garrone mi disse ‘Tu sei troppo gentile per Gomorra, hai dei tratti e dei lineamenti che non raccontano la cattiveria che io invece voglio mettere in scena’. Da lì a qualche anno sono diventato il vigliacco per eccellenza, il cattivo dei cattivi”.
Nel corso della sua carriera tanti incontri artistici e umani, ma ce ne sono stati due che per lui hanno rappresentato una svolta. Toni Servillo, “il mio maestro” e Francesco Ghiaccio rimangono le personalità a cui è artisticamente più legato, perché “sono sicuramente le due avventure umane e professionali fondanti della mia vita. Segnano un principio a cui sono profondamente legato, cioè quello della diversità, sono totalmente diversi da me ed è la ragione per cui mi eccitano”.
Con Gomorra e il personaggio di Ciro Di Marzio realizza il suo sogno, ma riceve anche tantissime critiche per le tematiche trattate all’interno della serie, che lo hanno fatto riflettere sul suo ruolo di attore in senso lato: “Quello che possiamo fare è raccontare delle storie che queste poi stimolino discussioni e anche conflitti (ovviamente parlo di conflitti intellettuali) è sacrosanto. Però noi non possiamo da una parte né sentirci censurati nell’affrontare certi temi, né così responsabilizzati nel dover difendere una storia, venendo risucchiati dentro discussioni politiche e sociali”.
Oltre al successo d’attore, arriva quello da regista, quando riesce a portare la serialità al cinema con “L’Immortale”: È un film autobiografico, perché io e Ciro abbiamo la stessa biografia, nel senso che siamo nati più o meno nello stesso posto negli stessi anni. Ovviamente lui, a differenza mia, non ha avuto alcuna possibilità di scelta nella vita, mentre io ho avuto la possibilità di studiare, di viaggiare, di incontrare persone che mi proponessero visioni di mondo alternative a quelle che io avevo già sognato”.
L’esperienza da regista è poi continuata con il docufilm “Napoli Magica”, che omaggia una città che gli ha dato tanto: “Un lavoro che nasce dal desiderio di questa città di parlare, di raccontarsi. Io nel film muoio vado poi a vedere che succede. E morire in quel senso significa ribaltare la visione della città. Napoli è una città cava come un palcoscenico e nel sottofondo della città ci sono anime che si agitano, leggende che si raccontano, personaggi strani in cui ci si può imbattere. Ho raccolto una risposta incredibile”.
Infine, una profonda riflessione sul ruolo salvifico che il cinema e l’arte in generale dovrebbero assumere, dato che “l’intrattenimento è meraviglioso e anche può essere anche altissimo, ma è una cosa fugace, passeggera, che appunto intrattiene, cioè si trattiene con te. Però ad esempio ‘C’era una volta in America’ è stato un film capace di modificare il mio senso civico e questo lo dico per testimoniare il fatto che quello che facciamo non necessariamente salva, ma serve”.